"Ci sono tre tipi di bugie: le bugie, le bugie spudorate e le statistiche" diceva, secondo Mark Twain, Benjamin Disraeli. Ed una statistica ha citato il ministro dell’Ambiente in apertura della Conferenza nazionale sui cambiamenti climatici tenutasi a Roma la scorsa settimana: “La temperatura in Italia è aumentata quattro volte in più che nel resto del mondo: 1,4 gradi negli ultimi 50 anni mentre la media mondiale è di 0,7 gradi nell'intero secolo”. Come facilmente prevedibile, il dato è poi finito sulle prime pagine di giornali e nelle aperture dei telegiornali. Qualcuno ha persino detto, interpretando a modo suo, che la temperatura in Italia sarebbe già aumentata di ben quattro gradi. Il dato citato da Pecoraro Scanio, vero, non dice però la verità. Lo ha ricordato, in un’intervista al Corriere Franco Prodi, direttore dell’Istituto di Scienze dell’atmosfera e del clima al Cnr: “E' stato detto che in Italia la temperatura è aumentata quattro volte in più rispetto al resto del pianeta: ma come hanno potuto? Eppure i dati arrivano dal Cnr. E dicono che a fronte di un aumento di temperatura di sette decimi di grado per secolo, in Italia è aumentata di un grado. Ovvero l'Italia è assolutamente in linea rispetto al resto delle terre emerse dove, si sa, la temperatura è sempre superiore”. Ancor più interessante è l’annotazione successiva del climatologo bolognese: “Hanno dato per scontato e misurato il contributo antropico all'aumento della temperatura.
Ma non è così: è assai probabile che ci sia il contributo dell'uomo nell'aumento di temperatura. Ma quantificarlo è, invece, il problema di questo secolo.” Già, è proprio così. Sebbene la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera sia aumentata di più di un terzo rispetto all’epoca pre-industriale, non sappiamo ancora dire qual è stato l’impatto dell’uomo sul clima; la ragione è che tale influenza è finora piccola se paragonata alla naturale variabilità del clima. Questa semplice constatazione dovrebbe indurre quanto meno alla prudenza nell’intraprendere azioni di drastica riduzione delle emissioni di CO2 e a guardare criticamente al protocollo di Kyoto.
Non sembra però essere di tale avviso il fratello del professor Prodi, nonché presidente del Consiglio, il quale, in conclusione della conferenza, ha detto di considerare l’accordo sottoscritto nel 1997 un buon inizio.
Eppure, sono numerosi gli economisti che si occupano di riscaldamento globale a pensarla diversamente. Fra questi, l’americano William Nordhaus, definito dall’Economist come il padre della “climate economics”, il quale in un recente paper ha descritto il protocollo di Kyoto come uno strumento mal concepito, probabilmente inefficace e fondato su un obiettivo ambientale alquanto discutibile. Per il professore di Yale, i costi di mitigazione conseguenti all’implementazione del protocollo sarebbero cinquanta volte superiori rispetto a quelli delle politiche più efficaci; o, detto altrimenti, gli stessi risultati si potrebbero raggiungere spendendo cinquanta volte di meno. Ancor più negativa è la valutazione espressa da Nordhaus relativamente ai piani di rapida riduzione delle emissioni contenuti nel rapporto Stern e nella proposta avanzata dall’ex vice presidente degli Stati Uniti, Al Gore. Tali politiche avrebbero infatti costi superiori ai benefici ed un bilancio negativo stimato rispettivamente pari a 17mila miliardi ed a 22mila miliardi di dollari. Piuttosto che implementarli sarebbe preferibile non fare nulla. La politica ottimale, secondo Nordhaus, sarebbe quella che non prevede la fissazione di limiti aprioristici alle emissioni ma, piuttosto, l’introduzione di una tassa omogenea a scala globale pari a 7,5 dollari per tonnellata di anidride carbonica emessa. Un altro economista, il canadese Ross McKitrick, ha poi avanzato una proposta che costituirebbe una sorta di compromesso tra scettici ed allarmisti: si tratterebbe di introdurre un meccanismo automatico in base al quale il livello di tassazione aumenterebbe o diminuirebbe in funzione della variazione futura della temperatura dell’atmosfera. Se hanno ragione gli scettici e il riscaldamento sarà modesto oppure si fermerà, il livello di tassazione verrebbe corretto al ribasso; viceversa, se l’impatto dell’uomo sul clima dovesse rivelarsi più rilevante, la tassa si accrescerebbe nel tempo. Se tale proposta venisse adottata si avrebbe, come auspicato dal vicepresidente di Confindustria Emma Marcegaglia, “un sistema di regole certe, un quadro organico chiaro e costante". Ma non c’è molto da sperare che i politici, in particolare quelli europei, recepiscano tali proposte. Non lo faranno perché in tal caso non avrebbero più giustificazione il sussidio di impianti fotovoltaici ed eolici, di treni e bus, l’incentivazione del risparmio energetico nonché l’interminabile elenco di interventi normativi e regolatori nei vari settori e si andrebbero a colpire tutti gli interessi particolari che traggono grandi vantaggi dalle politiche attuali. E non lo faranno perché in molti casi si scoprirebbe che l’attuale livello di tassazione è già superiore a quello auspicabile. Consideriamo ad esempio quanto accade nel settore dei trasporti: l’attuale imposizione fiscale sulla benzina è equivalente a circa 300 euro per tonnellata di CO2 emessa ossia quaranta volte superiore al livello ottimale sotto il profilo ambientale (le altre esternalità sono in rapido declino). E non lo faranno perché per molti di loro il cambiamento climatico non è un problema da affrontare ma piuttosto uno strumento tramite il quale raggiungere un altro fine come si può leggere, neanche troppo tra le righe, nella dichiarazione rilasciata alla conferenza sul clima - tra scroscianti applausi della platea, riferiscono le cronache - dal ministro Mussi, secondo il quale "il capitalismo nella sua forma attuale è incompatibile con il pianeta Terra”. Ambientalisti di tutto il mondo, unitevi. |