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| inserito il: 2-9-2007 |
| Africa, il problema è la povertà non il clima |
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| di Anna Bono |
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Dalle indipendenze a oggi le principali cause del mancato sviluppo economico e sociale dell’Africa, e quindi della sua persistente povertà, sono state attribuite di volta in volta a: tratta atlantica degli schiavi, colonialismo europeo, neocolonialismo, imperialismo occidentale, multinazionali, Banca Mondiale e Fondo monetario internazionale, boom demografico, debito estero e globalizzazione. Adesso è il turno soprattutto delle malattie e dei cambiamenti climatici.
Secondo una ricerca della Organizzazione Mondiale della Sanità, la sola malaria è responsabile di perdite economiche astronomiche. Se non ci fosse questa malattia a decimare e debilitare la popolazione, il Prodotto interno lordo dell’Africa subsahariana nel 2000 sarebbe stato superiore del 32%. Ingenti sono anche i danni causati dalla seconda malattia maggiore del continente, la tubercolosi, per non dire di quelli incalcolabili provocati dall’Aids negli ultimi 10-15 anni. Le malattie – questa è la conclusione – rappresentano un “grave ostacolo allo sviluppo” e spiegano la persistente povertà del continente africano o almeno vi contribuiscono in misura significativa.
È chiaro a tutti che, in effetti, le malattie riducono la capacità produttiva di una comunità e assorbono parte delle sue risorse a scapito di altri impieghi redditizi. Tuttavia è altrettanto vero che l’umanità ovunque è stata inizialmente ‘povera’ al punto da essere incapace di combattere le malattie e di capirne anche solo la causa scatenante il che non ha impedito, in certe regioni del pianeta, di sviluppare delle economie produttive in sostituzione di quelle di sussistenza e di ricavarne strumenti sempre più efficaci nel conservare salute e forma fisica, prolungando la durata della vita e migliorando straordinariamente le condizioni generali d’esistenza. Perciò la correlazione tra malattia e povertà va corretta: gli Africani non sono poveri perché ammalati, ma, viceversa, si ammalano così tanto perché sono poveri, perché cioè in maggioranza non superano il livello dell’economia di sussistenza con tutti i suoi drammatici limiti.
Nessun programma di sviluppo che non consideri questa prospettiva può dare buoni risultati.
Ciò è tanto più vero nel caso dei cambiamenti climatici e in particolare del cosiddetto global warming, l’ultimo dei fattori di arretratezza individuati in ordine di tempo. Nelle scorse settimane sono stati attribuiti ai cambiamenti climatici la fame che attanaglia lo Zimbabwe, dove si stimano in 4,1 milioni le persone che dipenderanno dagli aiuti alimentari per sopravvivere nei prossimi otto mesi, il dimezzamento dei raccolti di cacao, cotone e riso verificatosi negli ultimi anni in Costa d’Avorio, e il conflitto del Darfur, Sudan occidentale, dove dal 2003 popolazioni di pastori e agricoltori combattono con violenza tale da aver costretto oltre due milioni di persone a lasciare case e raccolti e dove due terzi della popolazione necessita di assistenza per sopravvivere.
Ma in Zimbabwe, un tempo granaio d’Africa ed esportatore di materie prime, la crisi che ha portato l’80% della popolazione a vivere al di sotto della soglia della povertà è iniziata con la dissennata politica economica del dittatore Robert Gabriel Mugabe, al potere dal 1980, anno dell’indipendenza dalla Gran Bretagna. Il collasso definitivo è stato determinato all’inizio di questo secolo non dal surriscaldamento del pianeta, ma dall’esproprio violento ordinato dal governo di migliaia di fiorenti fattorie le cui terre, frammentate in minuscoli appezzamenti, adesso sono incolte o vengono di nuovo coltivate con i metodi dell’economia di sussistenza, rendendo sempre meno per mancanza delle tecnologie più elementari.
Anche nel caso della Costa d’Avorio, sembra verosimile che il dimezzamento delle colture commerciali sia da imputare, assai più che al global warming, al conflitto iniziato nel 2002 dopo un fallito colpo di stato, in seguito al quale il paese è stato diviso in due e ancora deve ritrovare l’unità dopo gli accordi di pace firmati la scorsa primavera tra il governo e i movimenti armati antagonisti.
Per finire, il Darfur è teatro di guerre a bassa intensità sia di conquista, per il controllo dei punti d’acqua e delle terre migliori, sia di rapina, per integrare la scarsa e irregolare produzione tipica delle economie di sussistenza. Sono conflitti che da sempre caratterizzano tutto il continente africano. Il fattore nuovo, che ha fatto degenerare tragicamente la situazione, non è un cambiamento di clima, ma il fatto che il governo del Sudan ha deciso di sostenere una parte dei contendenti, le tribù di remota origine araba, nell’ambito di un pluridecennale progetto di arabizzazione del paese.
D’altra parte invocare il global warming come causa di carestia o guerra o di alcunchè, allo stato attuale è una scelta a dir poco azzardata. Nessuno ha ancora provato che sia in atto un processo costante di riscaldamento destinato a durare né si conoscono gli effetti di un simile eventuale mutamento climatico. Che poi debba per forza danneggiare, neanche questo, malgrado la sicurezza con cui i movimenti ecocatastrofisti dipingono un futuro apocalittico, è stato finora dimostrato. |
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