Le prime notizie di scontri in Darfur risalgono alla fine degli anni Novanta del Ventesimo secolo, ma fu nei primi mesi del 2003 che il mondo seppe dell’esistenza di questa estesa regione occidentale del Sudan divisa in tre stati - Nord, Sud e West Darfur - e ci volle un po’ di tempo perché l’attenzione si focalizzasse sulla guerra che vi si stava combattendo, e se ne comprendesse la gravità, perché in quel periodo la diplomazia internazionale era concentrata sul Sud Sudan e sui difficili negoziati, dall’esito ancora incerto, tra il Sudan people liberation army, Spla, il principale movimento armato indipendentista del Sud, e il governo di Khartoum. Ci volle del tempo anche per capire che cosa stesse esattamente succedendo. All’origine della lunga guerra tra Khartoum e Spla, conclusasi con gli accordi di pace del gennaio 2005, era stato il processo di marginalizzazione e di islamizzazione forzata del Sud, quasi interamente abitato da popolazioni animiste e cristiane, da parte delle etnie di religione islamica che costituiscono oltre il 70 per cento della popolazione sudanese e vivono in prevalenza nelle regioni centro settentrionali del vasto Stato, grande otto volte l’Italia e abitato da quasi 36 milioni di persone. Il conflitto era iniziato nel 1956, all’indomani dell’indipendenza dalla Gran Bretagna che aveva consegnato le istituzioni politiche alle etnie islamiche, e si era inasprito nel 1983 con la decisione di Khartoum di adottare la legge coranica, la shari’a, imponendola su tutto il territorio nazionale. Fu in seguito a ciò che l’allora governatore militare della città sud orientale di Bor, John Garang, si ribellò e fondò l’Spla con l’intenzione di difendere l’identità e la fede del suo popolo, l’etnia Dinka, giungendo poi a rivendicare l’indipendenza di tutto il Sud Sudan. Il peggio è venuto a partire dal 1989, dopo il colpo di stato contro il primo ministro Sadeq al-Mahdi che ha portato al potere l’attuale capo di stato e di governo, il generale Omar Hassan el Bashir, e con lui il leader fondamentalista Hassan al Tourabi che è stato suo consigliere per dieci anni. È il periodo in cui il Sudan ha ospitato Osama bin Laden e i suoi campi d’addestramento, fino al 1996, e in cui la scoperta di giacimenti di petrolio ha trasformato le azioni repressive del governo in una guerra di sterminio motivata non più soltanto dall’affermazione di un’identità etnico-religiosa, ma anche dall’obiettivo di controllare i proventi di quella che nel frattempo è diventata l’industria più redditizia del Paese. Alla notizia del nuovo fronte antigovernativo apertosi nel Darfur sembrò quindi ovvio immaginare che si trattasse di una situazione analoga a quella del Sud Sudan, vale a dire che anche in questo caso si trattasse di cristiani e animisti in lotta contro il governo guidato da una leadership islamica sempre più fondamentalista. Lo scenario che si presentò ai primi osservatori era chiaro almeno per quanto riguardava l’individuazione delle vittime e degli aggressori. Da tempo, e con intensità crescente a partire dal 1999, delle bande di ben armati uomini a cavallo o a dorso di dromedario attaccavano i centri rurali razziando bestiame, raccolti e beni, bruciando case e granai e lasciando dietro di sé morti e feriti, donne e bambine violentate, famiglie sprovviste di tutto. Il loro nome è diventato sinonimo di ferocia spietata: si chiamano Janjaweed, diavoli a cavallo. Fu con meraviglia che si scoprì però che le vittime, a differenza di quanto si era verificato in Sud Sudan, professavano la stessa religione degli aggressori, quella islamica, e che a dividerli era il fattore etnico. I villaggi razziati e dati alle fiamme erano popolati dalle etnie autoctone - Fur, Zagawa e altre minori - dedite all’agricoltura. I janjaweed appartenevano invece alle locali etnie di pastori che vantano un’origine araba: discendono o pretendono di discendere, come la leadership politica di Khartoum, dai colonizzatori arabo-islamici che, a partire dalla fine del Settimo secolo, hanno invaso e conquistato il Nord Africa per poi insinuarsi più lentamente nelle regioni subsahariane. A far precipitare la situazione tra il 2002 e il 2003 è stato il sostegno attivo che il governo ha deciso di fornire ai janjaweed, che fino ad allora si era limitato a lasciare liberi di agire, e poi l’intervento diretto di esercito e aviazione che, come nel Sud, hanno incominciato ad assalire e bombardare i villaggi degli agricoltori provocando la fuga di decine e presto di centinaia di migliaia di persone. È stato allora che il Darfur liberation movement, fondato nel 2001, si è armato e, ribattezzato Sudan liberation army-movement, Sla-m, ha incominciato a combattere, affiancato poco dopo da un secondo raggruppamento, il Justice and Equality Movement, Jem, e da alcuni movimenti minori. Si è detto che i nuovi avversari di el Bashir ricevessero sostegno economico e militare dall’Spla che se ne serviva per ottenere da Khartoum condizioni di pace più favorevoli al tavolo dei negoziati e il governo ha accusato in diverse occasioni anche l’Eritrea, ritenuta inoltre complice dei movimenti armati antigovernativi delle etnie Beja delle provincie orientali, e al Tourabi, caduto in disgrazia nel 1999, rimesso in libertà dopo alcuni anni di carcere e di arresti domiciliari e leader del partito islamista ora all’opposizione, il People National Congress. Ma, qualunque ne fosse la fonte, gli aiuti militari ed economici non sono bastati a rendere le milizie antigovernative del Darfur forti abbastanza da proteggere la popolazione civile. Da quel momento la storia del Darfur è stata un crescendo di violenze, nonostante un primo cessate il fuoco deciso nel settembre 2003: il primo di una serie di impegni formali a sospendere le ostilità sottoscritti da Khartoum e dai movimenti armati e sempre, subito violati da entrambe le parti. Alla fine del 2003 si contavano già 7 mila vittime civili e 600 mila tra sfollati e profughi, pari a un decimo della popolazione darfurina.
Per chi conosce la storia dell’Africa indipendente, quel che è successo dal 2003 a oggi in Darfur appare come una precisa replica di un copione noto e dalle prevedibili conseguenze. Gli ultimi dati forniti dalle Nazioni Unite, inesatti per difetto essendo vecchi di alcuni mesi e in attesa di essere aggiornati, quantificano i danni causati finora dalla guerra in circa 250 mila profughi, quasi tutti rifugiati nel vicino Ciad, 2,5 milioni di sfollati, 200 mila morti, oltre a un numero incalcolabile di vittime di atti di violenza: stupri, torture, mutilazioni. È evidente che non si tratta dei “danni collaterali” di un conflitto che travolge la vita dei civili: i discendenti dei colonizzatori arabi del Sudan vogliono liberarsi della popolazione di origine africana e perseguono il loro obiettivo sterminandola e inducendo i sopravvissuti a fuggire per paura e per mancanza di mezzi di sostentamento. Come aveva fatto per il Sud Sudan, Khartoum ha negato a lungo non solo qualsiasi responsabilità diretta nel conflitto, ma addirittura il conflitto stesso e le sue terribili conseguenze sulla popolazione civile. All’atto pratico, questo ha comportato il frequente rifiuto di concedere l’apertura dei corridoi umanitari indispensabili a raggiungere gli sfollati affamati e spesso persino privi di un riparo, rendendo la loro condizione ancora peggiore di quella dei profughi ospitati oltre frontiera nei campi allestiti in Ciad dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Non si spiega come mai la volontà maligna di un governo abbia potuto tradursi in una crisi di proporzioni così vaste e devastanti, che è soltanto l’ultima di una serie di crisi altrettanto gravi verificatesi in Africa negli anni Novanta del Ventesimo secolo - Repubblica Democratica del Congo, Somalia, Sierra Leone, Liberia, Rwanda, Uganda - senza considerare un fattore fondamentale, per quanto in genere a dir poco sottostimato. Si tratta della conflittualità inter e intra tribale che, con la sua potenzialità distruttrice e forse anche genocida, è la chiave per capire l’intera storia del continente. Guerra di saccheggio - per predare raccolti, bestiame, beni e persone - e guerra di conquista - per impossessarsi di pascoli, terre coltivabili, punti d’acqua e altre risorse naturali - sono infatti fattori strutturali delle economie di sussistenza, di cui il modo di produzione di lignaggio africano è una modalità, rese indispensabili dalla limitatissima e irregolare capacità produttiva che le caratterizza. Quella del Darfur è innanzi tutto una degenerazione dei conflitti endemici a scopo di rapina e di conquista che da secoli oppongono le etnie della regione. A cinquant’anni dall’indipendenza, in Sudan, come nel resto dell’Africa, l’economia di sussistenza prevale ancora nelle aree rurali e, sotto forma di «settore informale», anche nei centri urbani, rendendo tuttora strutturale la conflittualità inter e intra etnica. Inoltre nell’Africa indipendente conquistare con la forza o con mezzi almeno apparentemente democratici le istituzioni politiche è il traguardo più importante che ogni etnia, ogni clan, ogni lignaggio si pone poiché l’apparato statale in Africa è lo strumento più potente di rapina delle risorse nazionali, spesso costituite da immense riserve di petrolio e di altre preziose materie prime, e attribuisce a chi se ne impadronisce una forza militare schiacciante sulle comunità che ne sono escluse. Nel caso del Sudan il petrolio è diventato il movente e al tempo stesso l’arma della leadership arabo-islamica che dalla nuova ricchezza deriva la motivazione a concludere il processo di marginalizzazione della popolazione africana e ricava ulteriori mezzi per realizzarla, di cui si serve per potenziare le proprie forze militari e di sicurezza e per armare le proprie etnie. Nel Sud l’obiettivo è stato mancato, almeno per il momento; nel Darfur la partita è aperta e la posta in gioco può darsi che sia ancora più elevata. I recenti sviluppi del conflitto, infatti, fanno pensare che Khartoum miri a destabilizzare la Repubblica Centroafricana e soprattutto il Ciad, lo stato a maggioranza islamica che si estende a ovest del Sudan, sostenendo i movimenti antigovernativi concentrati nelle regioni orientali del Paese dove si trovano i rifugiati del Darfur. Da oltre un anno il presidente ciadiano, Idriss Deby, eletto nel 2006 per la terza volta, accusa il governo sudanese di armare l’opposizione armata che intende destituirlo con la forza e di inviare squadre di janjaweed a razziare e devastare i villaggi degli zagawa ciadiani, l’etnia a cui lui stesso appartiene. Il controllo del Ciad, che ha appena incominciato a sfruttare i propri giacimenti petroliferi, moltiplicherebbe le risorse del regime di Khartoum e gli permetterebbe di espandersi fino alla Nigeria, raccordandosi con gli Stati settentrionali islamici di quest’altra potenza economica africana, 12 dei quali dal 1999 hanno adottato la shari’a, che potrebbero ottenere la vittoria di un candidato musulmano alle elezioni presidenziali del prossimo aprile. A sbarrare la strada in Ciad a el Bashir ci pensa per ora il contingente di militari francesi che in base a un accordo bilaterale fornisce a Deby appoggio logistico e protezione degli obiettivi strategici. Assai meno efficaci si sono dimostrati invece gli interventi dei due organismi internazionali più coinvolti, l’Unione Africana, Ua, e le Nazioni Unite. Per l’Ua il Darfur è stato un banco di prova. La sua African mission in Sudan, Amis, decisa nell’autunno del 2004 in alternativa all’intervento dei caschi blu più volte proposto dal Consiglio di sicurezza Onu e sempre respinto dal Sudan, è la più importante iniziativa finora intrapresa dall’organismo panafricano nato nel 2002. Il mandato dell’Amis, scaduto nel settembre 2006 e rinnovato per altri sei mesi grazie alla copertura finanziaria garantita dalla Lega Araba di cui il Sudan è membro, è proteggere i civili e monitorare la mai rispettata tregua firmata da Sla-m, Jem e Khartoum nell’aprile 2004 per consentire l’apertura di corridoi umanitari. Nonostante l’impegno di oltre 7mila elementi e il sostegno economico internazionale, i militari africani non sono stati all’altezza del compito loro affidato per mancanza sia di mezzi che di motivazioni, direttive e disciplina. Neanche la mediazione Ua ai negoziati tra Khartoum e lo schieramento antigovernativo svoltisi nel 2006 ad Abuja, Nigeria, ha dato esito positivo. L’accordo di pace del 5 maggio è stato firmato solo da una fazione dello Sla-m, quella guidata da Minni Minawi che in cambio ha ottenuto la quarta più importante carica governativa, quella di consigliere presidenziale, inventata apposta per lui. Il resto dello Sla-m e gli altri movimenti hanno dato vita a una nuova coalizione, il Fronte di salvezza nazionale, che tuttora combatte. Quanto alle Nazioni Unite, l’impotenza e la svogliatezza dell’organismo nei riguardi della guerra del Darfur sono stati evidenti fin dal rifiuto espresso nel 2004 di definirla “genocidio”, il che avrebbe permesso un intervento militare dell’Onu non autorizzato da Khartoum in nome del diritto all’ingerenza umanitaria. Poi, con la risoluzione 1593 del marzo 2005, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha incaricato il Tribunale Penale Internazionale di esaminare i crimini contro l’umanità commessi in Darfur. Ovviamente Khartoum ha respinto la risoluzione - che potrebbe portare sul banco degli imputati le massime cariche del governo e dell’esercito - definendola una violazione della propria sovranità nazionale e, altrettanto ovviamente, privo di autorizzazioni, il Tribunale ha incontrato difficoltà insormontabili nello svolgere indagini dirette sul campo. Scontata è stata anche la reazione alla risoluzione 1706 del Consiglio di sicurezza, presentata da Stati Uniti e Gran Bretagna e approvata nell’agosto 2006 con l’astensione di Russia, Qatar e Cina, che prevedeva l’invio di una forza internazionale di pace di 17 mila unità in sostituzione dell’inutile Amis. El Bashir ha ribadito il rifiuto di qualsiasi interferenza «straniera» in una questione da lui definita «africana, islamica e araba»: dove «straniera» sta per «occidentale» come risulta esplicitamente dall’esortazione a combattere l’Occidente e i suoi «crociati», non appena mettano piede in Darfur, contenuta in un messaggio dell’aprile 2006 di Osama bin Laden che peraltro forse ignora la presenza sul suolo sudanese dei «crociati» dell’Unmis, la missione Onu di peacekeeping in Sudan, creata nel 2005 per vigilare sulla pace siglata tra Khartoum e l’Spla, tuttora attiva con un organico di circa 10mila unità e alla quale ha partecipato un contingente italiano. Alla fine però el Bashir ha approvato l’intervento delle Nazioni Unite. Il consenso è arrivato a dicembre del 2006, pochi giorni dopo che gli Stati Uniti avevano proposto un piano che prevede un blocco navale e la creazione di una no-fly zone per impedire all’aviazione governativa sudanese di bombardare il Darfur. Al momento sembra trattarsi di una soluzione di compromesso che consente solo di rafforzare l’Amis con caschi blu e altro personale Onu e forse serve a Khartoum per prendere tempo. Non è detto infatti che la leadership arabo-islamica sudanese abbia la forza di realizzare il suo piano egemonico. La pace con l’Spla, con cui il governo ancora discute i termini della spartizione delle royalties pagate dalle compagnie petrolifere che sfruttano i giacimenti delle provincie meridionali, prevede un referendum che nel 2011 permetterà al Sud di scegliere tra l’attuale autonomia amministrativa e l’indipendenza. Inoltre nelle provincie del nord est, dove si trovano la più grande miniera d’oro, il porto più importante e la maggiore raffineria del Paese, gli accordi stipulati a ottobre dal governo con un altro movimento armato, il Fronte Orientale, non reggeranno se el Bashir non concederà maggior potere politico e risorse alle etnie Beja. Non va dimenticato infine che il futuro corso degli eventi dipenderà anche dalla Cina. Pechino acquista due terzi dei 500 mila barili di petrolio estratti ogni giorno in Sudan, ma lo scorso agosto ha allacciato relazioni diplomatiche con il Ciad con cui all’inizio del 2007 ha stipulato una serie di accordi commerciali e finanziari. |