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| inserito il: 17-11-2007 |
| Biocarburante? Un'altra invenzione protezionista |
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| di Francesco Ramella |
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I critici delle politiche di mitigazione del riscaldamento globale hanno ripetutamente sottolineato come la riduzione delle emissioni conseguita tramite l’aumento della tassazione dell’energia determinerebbe, perlomeno nel breve termine, conseguenze negative sotto il profilo della crescita economica.
Peraltro, misure siffatte avrebbero un effetto molto limitato se applicate solo nei Paesi ricchi: se Kyoto fosse applicato alla lettera, la differenza di incremento di temperatura a metà secolo rispetto allo scenario tendenziale sarebbe dell’ordine di 0,1 °C. D’altra parte, se drastici vincoli ai consumi energetici fossero imposti anche ai Paesi poveri si avrebbero conseguenze negative ancora più gravi a causa del rallentamento dello sviluppo. Come noto, la crescita del reddito è correlata al miglioramento delle condizioni di alimentazione e di quelle sanitarie. Con lo sviluppo economico si riduce il tasso di mortalità infantile e si allunga la speranza di vita. Anche un modesto declino (o una mancata crescita) del reddito dei paesi poveri si tradurrebbe quindi in un rilevante impatto negativo sul loro benessere.
Sembra ora emergere un’altra conseguenza inintenzionale delle politiche di riduzione delle emissioni: l’aumento della domanda di carburanti di origine agricola motivata dalla volontà di ridurre le emissioni di anidride carbonica sta contribuendo a far aumentare i prezzi dei prodotti alimentari e rischia di aggravare i problemi di malnutrizione dei Paesi più poveri.
Negli scorsi giorni il relatore speciale dell’ONU sul diritto all’alimentazione, lo svizzero Jean Zingler, si è spinto ad affermare che la produzione di bioetanolo rappresenta “un crimine per l’umanità” e che sarebbe auspicabile una moratoria della produzione fino a che divenga possibile utilizzare rifiuti agricoli e avanzi vegetali al posto delle colture alimentari.
Nell’ultimo anno il prezzo del mais è aumentato di circa il 50% e quello della soia del 30% anche a seguito della riduzione della produzione di tale coltivazione a favore dello stesso mais che, grazie ai generosi sussidi pubblici, risulta essere più profittevole. E la situazione sembra essere destinata a peggiorare nei prossimi anni, sia per la crescita di domanda che viene dal mercato, in particolare per l’allevamento di bestiame in Cina, sia in relazione ai target imposti dall’Unione Europea come dagli Stati Uniti in termini di sostituzione dei carburanti tradizionali con quelli di origine agricola.
A fronte di tale impatto negativo per l’alimentazione nei paesi più poveri, i benefici ambientali, oltre che ad essere assai dilazionati nel tempo (le azioni che vengono attuate oggi avranno ricadute sul clima solo tra alcuni decenni), sembrano essere assai modesti. Sono stati finora condotti numerosi studi per stimare la riduzione delle emissioni di CO2 conseguibile grazie ai biocarburanti: i risultati non sono univoci e dipendono fortemente dal tipo della coltura prescelta e dalla zona di produzione. Uno studio pubblicato lo scorso anno da alcuni scienziati dell’università di Berkeley, perviene alla conclusione che, tenuto conto della quantità di energia utilizzata nelle varie fasi di produzione del mais, si avrebbe un contenimento delle emissioni intorno al 10%. Un’altra ricerca da poco uscita sulla rivista Atmospheric Chemistry and Physics e relativa al biodisel giunge a risultati opposti: le emissioni non solo non sarebbero ridotte ma s’incrementerebbero di oltre il 50% rispetto all’utilizzo del petrolio.
Non mancano poi altri impatti ambientali negativi dei biocarburanti come, ad esempio, l’utilizzo di enormi aree per la coltivazione (analogamente a quanto accade con la produzione di energia solare e fotovoltaica). In base alle stime riportate da Leonardo Maugeri (si veda Il Sole 24 Ore del 25 marzo 2007), in Italia, se tutti i terreni coltivabili venissero utilizzati per la produzione di olio di colza (la coltura preferibile per ottenere biodisel) si potrebbe sostituire circa il 15% dei consumi petroliferi. E per rimpiazzare il 4% del consumo di benzina in America sarebbe necessario utilizzare l’intera attuale produzione di mais del Paese.
Altra controindicazione è poi rappresentata dalle ingenti quantità di acqua necessaria per la coltivazione oltre che dall’erosione e l’impoverimento dei suoli. Sembra quindi essere quanto meno dubbio che i biocarburanti possano apportare significativi benefici e per l’uomo e per l’ambiente. Né sono da aspettarsi ricadute positive in termini di sicurezza degli approvvigionamenti di carburanti: il rischio (quasi inesistente per la verità) connesso all’importazione di petrolio dall’estero verrebbe sostituto da quello correlato alla forte variabilità della produzione agricola.
Le ingenti risorse che i Paesi sviluppati (circa 15 miliardi nell’OCSE) destinano al sussidio di tali combustibili sembrano quindi essere nient’altro che un’altra forma, appena mascherata, di protezionismo agricolo. Se così non fosse, non avrebbero ragione d’essere, da un lato, i sussidi ai produttori e dall’altro le alte tariffe doganali imposte sia dall’Europa che dagli Stati Uniti alle importazioni di etanolo dal Brasile, ove il costo di produzione è largamente inferiore.
Gratta l’ambientalista e, spesso, troverai un protezionista. |
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