La guerra, le guerre in medio Oriente si fanno soprattutto per assicurarsi la disponibilità delle risorse petrolifere. Lo ha sempre sostenuto la sinistra antagonista e pacifista in Europa come in America. E, a sostegno di tale tesi, si è aggiunta nelle scorse settimane la voce dell’ex governatore della Federal Reserve, Alan Greenspan, il quale nel suo libro di memorie, oltre a riservare più di una frecciata all’amministrazione Bush, riconosce con rammarico che il conseguimento del controllo dei giacimenti di petrolio è stata la principale motivazione dell’attacco a Saddam. Non sono peraltro mancati negli scorsi decenni interventi espliciti da parte di autorevoli esponenti conservatori, e non solo, a sostegno dell’azione militare come un’unica opzione per assicurarsi petrolio in quantità abbondante e a basso prezzo. Nel lontano 1975, un anonimo analista americano (da molti individuato in Edward Luttwack) sosteneva che per riportare il prezzo del petrolio ai livelli correnti prima della nascita del cartello petrolifero dell’OPEC non vi era altra strada che l’occupazione dell’Arabia Saudita. Più sfumata la posizione assunta a quel tempo da Henry Kissinger il quale sosteneva che il ricorso alla forza potesse essere giustificato non per ottenere un prezzo più basso ma solo qualora i Paesi produttori avessero attuato politiche di strangolamento di quelli industrializzati. E fu anche sull’onda di tali valutazioni che nel 1977 Jimmy Carter creò la “Rapid Deployment Force” (RDF, successivamente rinominata CENTCOM) al fine di poter disporre di uno strumento in grado di intervenire in tempi brevi in varie parti del mondo e il cui costo annuo è stato stimato essere pari all’1% del PIL americano.
In occasione della prima guerra del Golfo, fu lo stesso Bush padre ad affermare che l’intervento era almeno in parte da ricondursi alla volontà di controllare l’accesso alle risorse energetiche di quella zona: se Saddam Hussein avesse ottenuto il controllo di tali riserve, avrebbe messo a rischio posti di lavoro e tenore di vita degli americani. Ma davvero non c’è altra strada per soddisfare la nostra crescente domanda di oro nero? Non è di questo parere David Henderson, ricercatore dell’Independent Institute uno dei maggiori think tank americani di ispirazione libertaria il quale nel suo ultimo paper (“Do we need to go war for oil?”) sostiene che i propugnatori dell’uso della forza ignorano alcune nozioni economiche fondamentali. Il ragionamento di Henderson prende avvio dalla spiegazione del fatto che le code ai distributori di benzina registratesi nei primi anni ’70 non furono diretta conseguenza della riduzione della produzione da parte dell’OPEC quanto del controllo dei prezzi da parte del Governo americano che, impedendo a raffinatori e distributori di prodotti petroliferi di adeguare il prezzo alle mutate condizioni internazionali e, dunque, di consentire un riallineamento della domanda all’offerta, fece sì che gli automobilisti americani si mettessero in fila per acquistare, a un prezzo inferiore a quello che si sarebbe avuto in assenza di intervento pubblico, il “poco” carburante ancora disponibile. Nulla di tutto ciò accadde in Paesi come la Svizzera e la Germania ove non si ebbero imposizioni di prezzo da parte dei governi. E quando, nel 1981, Reagan pose fine al controllo dei prezzi, le code scomparvero. Ma le file ai distributori non furono la sola conseguenza negativa dell’intervento pubblico: il razionamento fece sì che la minor quantità di carburante disponibile non venisse utilizzata da chi era disposto a pagarla di più ma, tendenzialmente, dalle persone con un più basso valore del tempo come studenti ed impiegati. Oltre alle perdite di tempo, vi fu quindi un impatto negativo in termini di allocazione delle risorse che non vennero destinate agli usi più produttivi. Tali fattori amplificarono le conseguenze negative del taglio dell’estrazione di petrolio voluto dall’OPEC e trasformarono quello che sarebbe stato un rallentamento dell’economia in una stagflazione (stagnazione e inflazione). Ed è verosimilmente proprio grazie all’assenza di un controllo dei prezzi oltre che al minor peso percentuale dell’import di petrolio sul PIL di oggi rispetto a trent’anni fa, che l’economia americana è cresciuta ad un ritmo del 3% tra il 2002 ed il 2006 pur in presenza di un aumento del prezzo del petrolio da 23,7 a 58,3 dollari al barile. Ma, se un taglio generalizzato della produzione da parte dell’OPEC non sembra poter avere effetti devastanti sull’economia americana, cosa dire di un possibile provvedimento punitivo selettivo? Se, ad esempio, il Venezuela dal quale gli USA importano tanto petrolio quanto dall’Arabia Saudita volesse fare uno sgarbo a Bush rifiutandogli ogni fornitura, cosa accadrebbe? Ci sono due alternative: se Chavez volesse continuare a vendere la stessa quantità di petrolio dovrebbe trovare un altro acquirente, ad esempio la Cina. La Cina non comprerebbe più petrolio dall’Arabia Saudita che lo offrirebbe a sua volta agli Stati Uniti. L’unica ricaduta negativa per gli americani sarebbe quella di dover pagare un po’ di più per il trasporto del greggio: si tratterebbe di pochi dollari per ciascun americano in un anno. Dunque, un provvedimento punitivo siffatto sarebbe inefficace. Come ha spiegato Jerry Taylor del Cato Institute, il mercato mondiale del petrolio è come una vasca da bagno che viene riempita dai produttori ed alla quale attingono i consumatori. Un singolo produttore non può danneggiare un acquirente se non riducendo la quantità di petrolio che versa nella vasca. E se questo accadesse? Se Saddam avesse invaso il Kuwait, quali conseguenze vi sarebbero state? In teoria, il dittatore avrebbe potuto cessare di vendere tutto il petrolio sotto il suo controllo ma ciò avrebbe significato privarsi di ingenti flussi di denaro provenienti dall’estero oltre che fare un favore agli altri membri dell’OPEC. Immaginiamo invece che la produzione fosse stata ridotta di un quarto: tale riduzione sarebbe equivalsa a poco meno del 2% della produzione mondiale. Ipotizzando un’inelasticità della domanda nel breve periodo molto elevata, la conseguenza sarebbe stata un rialzo del prezzo dell’ordine del 20%, da 20 a 24 dollari per barile con una ricaduta sul PIL americano dell’ordine dello 0,2%. Il danno che un singolo produttore può infliggere è dunque assai limitato anche perché, oltre a quanto già detto, non bisogna dimenticare che l’incremento di prezzo conseguente al taglio dell’offerta di un Paese, rappresenta un incentivo ad un aumento della produzione da parte degli altri soggetti. L’evitare tale danno è il massimo beneficio teorico che può essere conseguito con un’azione militare (in realtà di rado la guerra raggiunge appieno il suo obiettivo e vi sono spesso conseguenze non previste come l’incendio di pozzi o il danneggiamento degli oleodotti che vanno a ridurre l’entità di tale beneficio). Poiché tale guadagno risulta essere di gran lunga inferiore al costo di mantenimento di una forza militare di intervento rapido oltre a quello di gestione dei singoli conflitti, anche una semplice analisi economica che, inopinatamente, trascurasse i costi umani dei conflitti, porterebbe alla conclusione che non vale la pena fare la guerra per il petrolio. Ma allora perché farla? Una risposta potrebbe venire dalla dottrina della public choice che interpreta i comportamenti dei politici come volti non ad accrescere il “bene comune” quanto, piuttosto, quello di alcuni particolari gruppi di interesse (in questo caso i fornitori degli apparati militari) o, ancora, di se stessi. Spesso gli storici giudicano i capi delle nazioni in base a come si sono comportati nelle guerre: è possibile che un Presidente degli Stati Uniti dia più peso a come sarà ricordato nei libri di storia che non all’interesse dei propri cittadini e di tutti coloro che sono coinvolti nelle guerre.
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