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inserito il: 28-9-2007
Papa anticapitalista? La solita bufala
di Francesco Ramella

Dalla lettura delle cronache degli scorsi giorni sembra emergere il ritratto di un Papa “anticapitalista”. Ma è un quadro veritiero? Qualche dubbio potrebbe sorgere dalla lettura di virgolettati che, quantomeno, sembrano essere approssimativi non potendosi ritrovare in molti di essi le parole effettivamente pronunciate dal Pontefice domenica scorsa.

E come deve essere interpretato il riferimento all’enciclica di Giovanni Paolo II, la Centesimus Annus: “il capitalismo non va considerato come l’unico modello valido di organizzazione economica”? Forse, la strada migliore è quella di proseguire nella lettura dello stesso paragrafo 35 dell’Enciclica cui ha fatto riferimento Benedetto XVI prima dell’Angelus. La citazione è un po’ lunga ma, crediamo, non priva di elementi di interesse: “Si è visto come è inaccettabile l'affermazione che la sconfitta del cosiddetto «socialismo reale» lasci il capitalismo come unico modello di organizzazione economica. Occorre rompere le barriere e i monopoli che lasciano tanti popoli ai margini dello sviluppo, assicurare a tutti — individui e Nazioni — le condizioni di base, che consentano di partecipare allo sviluppo. Tale obiettivo richiede sforzi programmati e responsabili da parte di tutta la comunità internazionale. Occorre che le Nazioni più forti sappiano offrire a quelle più deboli occasioni di inserimento nella vita internazionale, e che quelle più deboli sappiano cogliere tali occasioni, facendo gli sforzi e i sacrifici necessari, assicurando la stabilità del quadro politico ed economico, la certezza di prospettive per il futuro, la crescita delle capacità dei propri lavoratori, la formazione di imprenditori efficienti e consapevoli delle loro responsabilità.”

Giovanni Paolo II sembra dunque sostenere che per lo sviluppo delle nazioni più povere è necessario che anch’esse divengano parte del mondo globalizzato. Perché questo possa accadere, si auspica che vengano meno barriere e monopoli. Ma barriere e monopoli sono due tipici prodotti dell’intervento dello Stato in ambito economico e la loro soppressione non può che ricevere il plauso di chi sostiene le ragioni dell’economia di mercato. Di chi vorrebbe, ad esempio, che cessasse la politica europea di sussidio dei prodotti agricoli che, oltre a far pagare di più i consumatori europei, danneggia i Paesi poveri togliendo loro un’importante occasione di inserimento negli scambi internazionali.

Nel passaggio successivo dell’enciclica il Papa fa poi riferimento al tema del debito estero dei Paesi più poveri. Accanto alla riaffermazione del principio che i debiti devono essere pagati, si aggiunge che “non è lecito chiedere o pretendere un pagamento, quando questo verrebbe ad imporre di fatto scelte politiche tali da spingere alla fame e alla disperazione intere popolazioni.”
Anche qui, più che un fallimento del capitalismo, all’origine del problema sembra esservi piuttosto un intervento non andato a buon fine degli Stati che hanno trasferito risorse in mano di altri governanti i quali, spesso, invece che utilizzarle per migliorare le condizioni di vita dei Paesi che erano loro affidati, le hanno destinate all’acquisto di armamenti, a soddisfare interessi personali o dei propri amici o, comunque, le hanno investite in progetti inefficaci.

Non manca poi nella stessa Centesimus Annus un’esemplificazione concreta di come attuare la logica della condivisione e della solidarietà richiamata da Benedetto XVI. Nel successivo paragrafo 36 si può infatti leggere: “Anche la scelta di investire in un luogo piuttosto che in un altro, in un settore produttivo piuttosto che in un altro, è sempre una scelta morale e culturale. Poste certe condizioni economiche e di stabilità politica assolutamente imprescindibili, la decisione di investire, cioè di offrire ad un popolo l'occasione di valorizzare il proprio lavoro, è anche determinata da un atteggiamento di simpatia e dalla fiducia nella Provvidenza, che rivelano la qualità umana di colui che decide”.

Se non interpretiamo male, dunque, la strada suggerita non è, come si potrebbe arguire dalla lettura che è stata data al messaggio del Papa, “politica” quanto “personale”. Non viene proposto un modello economico altro e migliore del capitalismo (“La Chiesa non ha modelli da proporre”), piuttosto l’appello è rivolto ai capitalisti perché destinino una parte delle risorse accumulate a favore dei poveri. Un invito a essere più intraprendenti e a rischiare di più. E a rinunciare ad un profitto immediato per godere di uno futuro e “altro”.