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inserito il: 12-12-2007
Da Kyoto a Bali, la strada รจ sbagliata
di Francesco Ramella

Immaginatevi un atleta di salto con l’asta che, dopo aver fallito negli ultimi dieci anni il tentativo di superare l’asticella a 5,80 metri, si impegni nei prossimi dieci a scavalcarne una posta venti centimetri più in alto. Probabilmente guardereste a questa promessa con un po’ di scetticismo. Con gli stessi occhi dovremmo guardare agli impegni che verranno presi alla Conferenza sul clima di Bali dove i Paesi che non si sono mostrati capaci di rispettare il protocollo di Kyoto in scadenza nel 2012 prometteranno ancora più drastici tagli delle emissioni di CO2 per il futuro. D’altra parte, dicono, l’evoluzione del clima non ci lascia altra possibilità. Non è forse vero, come è stato ripetuto in decine di articoli e servizi televisivi, che la terra si sta scaldando ancor più velocemente del previsto e che, se non agiamo ora, sarà troppo tardi?

A giudicare dai dati disponibili non sembrerebbe. Negli ultimi anni gli eventi sembrano sì avere preso una piega inaspettata ma non nella direzione “allarmista”. La curva che descrive l’evoluzione della temperatura della superficie terrestre, invece di puntare con più decisione verso l’alto, sembra appiattirsi. Ma, anche volendo ignorare tale recente andamento, e prendendo in considerazione gli ultimi trent’anni (i precedenti trenta erano stati caratterizzati da una diminuzione della temperatura media del pianeta), la crescita della temperatura registrata risulta dell’ordine degli 0,17 °C per decade. Ossia, proiettando tale evoluzione sull’intero secolo, un riscaldamento di poco superiore ad un grado e mezzo, valore che si attesta al di sotto dello scenario più ottimistico fra quelli simulati dall’IPCC (International Panel on  Climate Change), l’organismo dell’ONU che si occupa del problema.

La realtà non sembra dunque conformarsi agli scenari più estremi, quelli che prevedono un aumento della temperatura di quatto o cinque gradi al 2100. Il divario che sussiste tra dati empirici e simulazioni modellistiche è verosimilmente riconducibile al fatto che il riscaldamento causato dalla CO2 viene fortemente attenuato da una serie di meccanismi naturali che agiscono in direzione contraria. I modelli, poi, prevedono che la temperatura della parte inferiore della atmosfera all’’Equatore cresca quasi tre volte più velocemente di quella superficiale ma le rilevazioni ci dicono che questo non sta accadendo.

E, se dall’analisi della temperatura passiamo ad analizzare le conseguenze del riscaldamento, l’impressione di una lettura tendenziosa di quanto sta accadendo sembra giustificata: si è parlato moltissimo negli ultimi mesi della riduzione della copertura di ghiacci nell’Oceano Artico. Quasi nessuno però è stato informato che nel 2007 è stato registrato il massimo della estensione delle superficie coperte da ghiaccio in Antartide da quando sono iniziate le misurazioni.

Un altro luogo comune è quello secondo cui, se le politiche di mitigazione del clima non raggiungono i risultati auspicati, la responsabilità ricade sulle spalle degli Stati Uniti che si sono finora rifiutati di sottoscrivere accordi internazionali vincolati per la riduzione dei gas serra. Non è così. Se anche gli Stati Uniti avessero ratificato il protocollo di Kyoto e tutti i Paesi firmatari avessero rispettato integralmente i contenuti del trattato, la riduzione della temperatura a metà del secolo rispetto allo scenario tendenziale sarebbe stata pari a 0,07 °C (e di 0,15 °C al 2100), ossia un valore inferiore alle differenze di temperatura che si registrano da un anno all’altro.

Il fatto che la regolamentazione delle emissioni negli Stati Uniti non possa che avere un impatto limitato sul clima mondiale è stato confermato da una recente analisi dell’EPA, l’agenzia federale americana per la protezione dell’ambiente, nella quale sono stati valutati gli impatti di tre diverse proposte legislative formulate da alcuni senatori americani che si propongono come obiettivo la riduzione delle emissioni del 60% entro il 2050. Qualora tali proposte venissero attuate, la concentrazione di CO2 in atmosfera alla fine del secolo sarebbe compresa fra 693 e 695 parti per milioni contro un valore di 719 in assenza di intervento.

Questo risultato si tradurrebbe in un minor incremento della temperatura del pianeta pari a circa un decimo di grado. I benefici in termini di riduzione dell’impatto dei cambiamenti climatici sarebbero quindi del tutto modesti. E, sempre facendo riferimento all’analisi condotta dall’EPA, tale risultato costerebbe agli Stati Uniti una riduzione annuale della ricchezza prodotta compresa fra l’uno ed il tre per cento.

Tali dati evidenziano come non vi sia alcuna realistica possibilità di intervenire sull’evoluzione del clima per i prossimi decenni. Inoltre, poiché drastiche politiche di contenimento delle emissioni hanno una ricaduta economica negativa, non è affatto vero che quanto più energica è la nostra azione tanto meglio è. D’altra parte, ad eccezione dell’energia nucleare, non vi sono oggi alternative reali all’utilizzo dei combustibili fossili. La strategia più ragionevole sembra quindi essere quella di promuovere, oltre alla ricerca tecnologica, azioni volte a porre rimedio a quei problemi, quali la diffusione della malaria, che potrebbero essere aggravati dall’aumento della temperatura. E’ inoltre opportuno attuare interventi che consentano ai Paesi più poveri di minimizzare, come già è stato fatto con grande successo in quelli sviluppati, le conseguenze negative del clima. Tali interventi consentono di ottenere benefici certi ed in tempi ravvicinati. E, così facendo, non corriamo il rischio di sprecare oggi ingenti risorse per poi accorgerci fra qualche decennio che l’impatto dell’uomo sul clima è molto più modesto di quanto ipotizzato e vani sono stati i nostri sforzi per governare un sistema in larga misura influenzato da fattori al di fuori del nostro controllo.