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inserito il: 7-3-2010
AFRICA, IL CAMBIOCLIMATISMO FRENA LO SVILUPPO
di Anna Bono
Nei quasi tre mesi trascorsi dalla conclusione della conferenza internazionale delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici svoltasi lo scorso dicembre a Copenhagen per decidere il dopo Protocollo di Kyoto, sono emerse numerose prove dell’inconsistenza scientifica delle teorie formulate dall’Ipcc. Ma non tutti sembrano esserne informati.

Di convegno in convegno, si continua a ragionare partendo dal presupposto che la temperatura del pianeta sia già aumentata a causa delle attività industriali e degli stili di vita dei paesi ricchi, che questo fenomeno abbia già inflitto seri danni all’umanità e all’ambiente e che nell’immediato futuro temperature e conseguenti danni aumenteranno inesorabilmente, con effetti sempre più catastrofici: a meno che i paesi di più antica industrializzazione non si impegnino a ridurre le emissioni di CO2, a qualsiasi costo, e si assumano l’onere finanziario dei danni provocati, nonostante i problemi che i provvedimenti per la riduzione delle emissioni e gli effetti negativi del global warming causeranno alle loro economie.

Leggendo i documenti prodotti dai più recenti convegni sul tema, emerge inoltre la convinzione quasi unanime che l’Africa sia il continente più colpito dai cambiamenti climatici, ma anche quello con maggiori possibilità di diventare un modello di sviluppo sostenibile purché sia messo in grado di industrializzarsi utilizzando fonti di energia pulite e rinnovabili, evitando quindi la fase di sviluppo industriale basata sull’impiego di fonti di energia fossili altamente inquinanti.

Lo ha affermato tra gli altri Nick Nuttal, portavoce del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP), il 3 marzo, ad Arusha, Tanzania, in occasione della VII Giornata africana dell’ambiente, promossa dall’agenzia ONU e intitolata quest’anno: ‘L’Africa fronteggia i cambiamenti climatici: conservare le biodiversità e rafforzare le conoscenze tradizionali’. In Africa, ha spiegato Nuttal, “il riscaldamento globale costituisce il maggior fattore di degrado ambientale e quindi di sottosviluppo e povertà”; per rimediare ai problemi del continente “più vulnerabile e più colpito dai mutamenti del clima” serve “l’impegno dei paesi ricchi che hanno il dovere di risarcire i guasti di una crescita economica irresponsabile”. Tuttavia “le grandi risorse naturali di questo continente possono essere messe al servizio di una crescita pulita, fondata su energie rinnovabili”. L’Africa può diventare un “esempio brillante di sviluppo sostenibile”.

Che l’Africa subisca i torti fatti alla natura da altri è stato vigorosamente ribadito il giorno successivo a Nairobi, Kenya, durante l’ ‘Africa Carbon Forum’, un convegno internazionale organizzato per fare il punto sui risultati del ‘Meccanismo per lo sviluppo pulito’, l’organo creato dal Protocollo di Kyoto per finanziare progetti destinati ai paesi emergenti e poveri. “L’Africa è la prima vittima dei cambiamenti climatici. Ma, pur non essendo responsabile delle emissioni nocive, ha ricevuto soltanto promesse finanziarie” ha detto il ministro dell’ambiente del Mali, Tiémoko Sangaré, lamentando la lentezza e l’esiguità del trasferimento di risorse dal Nord: a quanto pare, l’Africa finora ha ricevuto soltanto il 2% dei fondi del Meccanismo, andati a finanziare 122 progetti “verdi”. Ai convenuti, il presidente del Kenya Mwai Kibaki ha quindi ricordato che per risolvere il problema dei cambiamenti climatici serve un doppio impegno delle potenze industriali che si devono affrettare a ridurre le emissioni inquinanti e a fornire risorse ai paesi poveri affinché sviluppino tecnologie pulite.

Queste dichiarazioni sollevano una questione di non poco conto. Se i paesi industrializzati riconoscessero e onorassero l’obbligo morale di finanziare lo sviluppo sostenibile del continente africano, metterebbero a disposizione dei governi africani ulteriori decine di miliardi di dollari all’anno. Però, se decidessero di ridurre drasticamente l’impiego di energia ricavata da fonti fossili per seguirne “l’esempio brillante”, dimezzerebbero al tempo stesso gli introiti derivanti all’Africa dalla vendita del petrolio: la materia prima che attualmente costituisce una parte rilevante della ricchezza del continente e un elemento determinante della crescita del suo Pil registrata negli ultimi anni.

Né questo è l’unico problema creato dalla lotta alla povertà in Africa a chi si preoccupa dell’insostenibile ‘impronta ecologica’ che – a detta della maggior parte dei movimenti ambientalisti – l’umanità imprime al pianeta.

Da tempo, ad esempio, questi ultimi consigliano ai consumatori di acquistare merci prodotte a poca distanza dal luogo di vendita per ridurre il consumo di energia e l’inquinamento dovuti ai trasporti su lunghe distanze: il che vale in primo luogo per i beni trasportati da un continente all’altro per via aerea. In Gran Bretagna alcune catene di supermercati applicano ai prodotti i cosiddetti airplain stickers, dei contrassegni a forma di aeroplano per informare la clientela del contributo al global warming che il loro acquisto comporta. Il calcolo delle food miles, le miglia percorse, va eseguito per misurare i danni ambientali di qualsiasi prodotto, a maggior ragione se ritenuto superfluo. Per questo, a ogni San Valentino, si moltiplicano gli appelli affinché gli innamorati europei non regalino rose e altri fiori recisi coltivati in Africa Orientale.
Se applicata diffusamente, questa regola destinata a salvaguardare l’ambiente nuocerebbe allo sviluppo dei paesi africani i cui mercati interni sono ancora molto deboli.

Un’altra scelta difficile si pone con i biocarburanti derivati da mais, barbabietola e canna da zucchero, grano e altri raccolti alimentari: un’energia da preferire – sostengono gli ambientalisti – perché è rinnovabile e, ma questo è un punto controverso, meno inquinante del petrolio. Però destinare alla produzione di biocombustibile grandi estensioni di terreni coltivabili pare abbia contribuito in modo significativo all’elevato aumento del costo dei prodotti alimentari di base sui mercati internazionali verificatosi nel 2008: aumento di cui hanno fatto le spese soprattutto i più poveri e che in Africa ha messo in difficoltà milioni di persone.
L’International Food Policy Research Institute stima che nei prossimi dieci anni il prezzo del mais, in seguito alla produzione di biocombustibili, aumenterà almeno del 20% se non interverranno altri fattori a contenerne il costo.