Se il contributo dell’Africa al summit ONU sui cambiamenti climatici in corso a Copenhagen si limita a quanto riportato dalle principali agenzie di stampa, non lo si può certo definire fecondo e propositivo. Per una volta uniti e compatti, a quanto pare i governi africani non fanno che insistere sulla richiesta di risarcimenti ai paesi più industrializzati e da più lunga data: “L’Africa subisce i torti fatti alla natura da altri – sostiene l’inviato al vertice dell’Unione Africana Athanase Bopda – i grandi inquinatori temono di veder emergere altre potenze, che inquinano come loro; sanno di fare un commercio di ipocriti”.
L’Unione Africana, calcolando chissà come l’andamento futuro del global warming e i danni che ne deriveranno, chiede alla comunità internazionale almeno 46 miliardi di euro all’anno e ai paesi più industrializzati la riduzione del 40% rispetto al 1990 delle emissioni di anidride carbonica, da realizzarsi entro il 2020.
Il 14 dicembre, alla notizia che l’Unione Europea ha proposto di stanziare soltanto sette miliardi all’anno, i delegati africani insieme a quelli degli altri paesi membri del G-77 (l’organismo intergovernativo ONU costituito nel 1964, attualmente composto da 135 stati in via di sviluppo ed emergenti, tra cui India e Cina) hanno sospeso i negoziati per riprenderli solo dopo aver ottenuto dalla presidenza del summit l’assicurazione che verranno assunti concreti impegni economici a favore dei paesi poveri. Lamentano tuttavia mancanza di trasparenza e di democrazia nella conduzione del vertice. “I paesi ricchi stanno cercando di uccidere Kyoto: stanno cercando di far precipitare tutto” è stata la denuncia dell’algerino Kamel Djemouai, fattosi portavoce delle delegazioni africane. Dopo la ripresa dei lavori, Awudu Mbaya Cyprian, presidente dei parlamentari UA sul cambiamento climatico, ha dichiarato: per i paesi africani “è più conveniente non siglare alcun accordo piuttosto che aderire a uno che significherà la morte per il popolo africano”.
Sono parole grosse quelle del delegato africano e soprattutto sono parole incomprensibili se è vero che nessuno può prevedere realmente gli andamenti climatici del pianeta e che migliaia di scienziati nel mondo confutano l’idea che un eventuale aumento della temperatura terrestre comporti solo danni immensi, al punto da condannare a morte gli africani; per non dire della contestatissima teoria di un’origine essenzialmente antropica dei cambiamenti climatici.
Con i governi africani si è schierata Pechino definendo “una goccia nell’oceano” la cifra di sette miliardi di euro suggerita dall’Unione Europea e reclamando per i paesi poveri aiuti “sufficienti, supplementari e sostenibili”. La Cina, il paese che più inquina al mondo e che insieme agli Stati Uniti produce il 40% delle emissioni di anidride carbonica, ma che raramente diventa il bersaglio delle proteste di associazioni e movimenti ambientalisti, ha spiegato a Copenhagen di avere una propria strategia globale di “sicuro successo” per risolvere alla radice i problemi climatici e arrestare il global warming. Non di tecnologie che consentono di risparmiare energia e di inquinare di meno si tratta, bensì della politica del figlio unico, adottata in Cina alla fine degli anni 70 e che secondo Pechino tutti i governi del pianeta dovrebbero imporre.
L’idea di un controllo drastico delle nascite come rimedio al degrado ambientale e all’esaurimento delle risorse non è nuova. Tra i suoi sostenitori figurano numerosi movimenti ambientalisti che di sicuro accoglieranno con favore la proposta cinese di attenuare in questo modo l’ “impronta ecologica” impressa dall’umanità sulla Terra. Con la stessa logica, si potrebbero risolvere i problemi del traffico e dello smaltimento dei rifiuti nelle grandi città svuotandole dei loro abitanti.
In Cambogia i khmer rossi nel 1975 lo fecero in poche ore costringendo la popolazione urbana del paese a spostarsi nelle campagne. Inoltre i khmer rossi, va ricordato, “alleggerirono” l’impronta ecologica della Cambogia di un terzo, provocando la morte per stenti, torture ed esecuzioni capitali di 1,7 milioni di persone tra il 1975 e il 1979. |