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Al lavoro e per strada: così milioni di bambini africani trascorrono l'infanzia invece di studiare
di Anna Bono

L'istituzione del lavoro infantile è tuttora diffusa in tutto il continente africano. La convenzione internazionale 138 dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro fissa l'età minima per incominciare a lavorare a 14 anni. Applicando questo parametro, e stando ai dati disponibili, l'Africa 96 con almeno 80 milioni di africani tra i cinque e i 14 anni costretti a lavorare 96 è il continente con la più elevata percentuale di bambini lavoratori. Il Mali detiene il rìord continentale del lavoro infantile con il 54,5 % dei minori occupati, seguono il Burkina Faso, con il 51%, l'Etiopia, con il 42,3% e il Kenya con il 41,2%.

In realtà, poi, il fenomeno è molto più esteso di quanto non denuncino le cifre ufficiali perché queste non tengono conto degli innumerevoli minori che dedicano regolarmente una parte della giornata e interi periodi dell'anno ad attività domestiche o produttive effettuate in ambito familiare. Persino nei ceti agiati si danno casi di bambine che svolgono gravose mansioni domestiche e di cura insieme o invìe della madre e al servizio di parenti che le ospitano quando, per frequentare la scuola, si trasferiscono nei centri urbani maggiori.

Il lavoro alle dipendenze dei parenti non soltanto è mal retribuito o non lo è affatto, ma espone i bambini ad abusi ai quali non riescono quasi mai a sottrarsi. Le condizioni di lavoro e lo status in cui vivono i piccoli sfruttati fanno si che il confine tra asservimento e schiavitù spesso sia indistinto; per milioni di essi la differenza tra le due condizioni è di fatto irrilevante.

Schiavi veri e propri sono i circa 200.000 minori 96 inclusi numerosi bambini molto piccoli, persino di soli tre anni 96 che ogni anno vengono acquistati (oppure rapiti) e venduti come schiavi in paesi diversi da quello d'origine. Le attività alle quali sono destinati vanno dalla prostituzione ai lavori domestici, dall'accattonaggio all'estrazione mineraria al lavoro agricolo. Nel solo Stato del Benin si calcola che almeno 4.000 minori vengano venduti annualmente dai genitori e portati a lavorare nelle piantagioni di caffè, cacao o cotone dei paesi limitrofi. In uno di questi, la Costa d'Avorio, si stima che circa 15.000 bambini stranieri, in prevalenza originari del Mali, lavorino nelle piantagioni e che addirittura il 90% della produzione di cacao di quel paese sia frutto del lavoro di piccoli schiavi. Inoltre centinaia di bambine tra i sette e i 12 anni sono acquistate e impiegate ogni anno come serve da famiglie ricche della Costa d'Avorio e del Gabon.

Oltre al Benin, al Mali e alla Costa d'Avorio, in prima linea nella tratta dei bambini figurano Camerun, Burkina Faso, Togo, Gabon e Nigeria, in Africa Occidentale, e Sudan, Somalia, Chad e Angola nel resto del continente.

Se per "lavoro" si può intendere anche quell'insieme di espedienti, di attività illegali e criminali grazie ai quali vive una larga parte della popolazione inurbata, "lavorano" anche i bambini cosiddetti "di strada" e "per strada". La prima espressione si riferisce ai minori che non vanno a scuola, sono privi di referenti adulti, vivono per conto proprio spesso associandosi in bande di coetanei: si tratta di bambini abbandonati o cacciati dai genitori oppure orfani o, ancora, che hanno dìiso di lasciare una famiglia tutt'altro che amorevole; i "bambini per strada", pur abitando con i genitori o altri parenti ed eventualmente andando a scuola, passano la maggior parte del tempo fuori casa senza la vigilanza di un adulto responsabile, anch'essi dedicandosi ad attività irregolari; a spingerli "per strada" sono gli stessi genitori o altri parenti che ricavano dalle attività dei figli di che sostentarsi.

Il fenomeno è presente in tutte le capitali e in tutti i grossi centri urbani del continente: per esempio, a Nairobi, Kenya, si stimano 60.000 bambini "di strada" e 300.000 "per strada" su un totale di 3.400.000 abitanti.

 

 

Situazioni critiche, individuali e collettive, affievoliscono ulteriormente le speranze di un'infanzia protetta, fiduciosa e sana. Oggi in Africa dìine di milioni di persone sono coinvolte in conflitti cruenti o fuggono di fronte alla guerra e alla carestia: i loro bambini ne seguono la sorte

 

Oltre alle crisi di proporzioni apocalittiche per estensione, durata e numero di vittime, come ad esempio quelle verificatisi nella regione dei Grandi Laghi, in Sudan, Angola e Rwanda, l'instabilità del continente africano è dovuta a un susseguirsi incessante di conflitti e carestie di piccole e medie dimensioni.

C8 facile immaginare quale minaccia rappresentino per l'integrità fisica, morale e intellettuale dei bambini.

Due fenomeni in particolare vanno considerati per la gravità degli effetti che producono.

Guerre e carestie causano ogni giorni esodi forzati che provocano infinite sofferenze a chi vi è costretto. Il numero totale dei profughi e degli sfollati, dell'ordine di diversi milioni, varia continuamente, ma la percentuale di bambini supera sempre il 50 per cento.

Siccità e inondazioni generalmente causano spostamenti temporanei: al termine della stagione avversa, la maggior parte delle persone ritornano alle loro case e riprendono le loro attività. Analogamente gli scontri tribali e religiosi circoscritti, per quanto cruenti, di solito non provocano esodi perpetui. Invìe le grandi guerre creano situazioni quasi irreversibili che costringono le popolazioni coinvolte all'esilio per anni, addirittura per generazioni, e talvolta a una vita seminomade. In quest'ultimo caso di solito si tratta di famiglie obbligate a spostamenti di breve e medio raggio, ma frequenti, per evitare di essere intrappolate tra gli eserciti e le bande armate contendenti e di subirne la violenza. I nomadi involontari alla fine interrompono ogni attività produttiva, spìie agricola, consapevoli del fatto che possono essere costretti ad abbandonare da un giorno all'altro tutti i loro beni o vederseli sottratti e che difficilmente riusciranno a raccogliere dove hanno seminato. La loro speranza di sopravvivenza diventano i centri dove si distribuiscono cibo e medicinali.

A milioni, quindi, confluiscono nei campi di raccolta e assistenza sparsi per tutto il continente e la loro sorte dipende dalla regolarità e dall'adeguatezza degli aiuti internazionali e dall'atteggiamento che le popolazioni residenti assumono nei loro confronti. Comunque sia le loro condizioni di vita sono quasi sempre critiche: il tasso di mortalità infantile nei campi raggiunge anche il 60%. A peggiorare le cose contribuisce la frequenza dei comportamenti aggressivi e violenti e il ricrearsi di rapporti di potere e di gerarchie per il controllo, la spartizione e la distribuzione del cibo e delle altre risorse disponibili. Le situazioni più pericolose sono determinate dalla presenza di maschi adulti in grado di assumere la direzione informale dei campi e a risentirne sono soprattutto le donne e i bambini.

Guerra e fame, in sìondo luogo, trasformano una parte dei bambini da vittime in carnefici. La presenza di bambini armati, per lo più di età compresa tra i 10 e i 16 anni, è accertata in 25 paesi africani. Che siano spontaneamente al servizio dei loro leader tribali e nazionali o al soldo di milizie private oppure costretti a militare negli eserciti regolari o ancora forzati dai guerriglieri che li hanno rapiti alle famiglie e li tengono in schiavitù, almeno 120.000 bambini e adolescenti africani combattono. Per abituarli a farlo, chi li comanda ricorre spesso a droghe e alcool. Con il tempo, poi, in molti interviene l'abitudine alla violenza e perfino il piacere di incutere paura, la soddisfazione per il potere che ne deriva.

Le maggiori concentrazioni di bambini soldato attualmente si trovano in Algeria, Congo Brazzaville, Etiopia, Liberia, Congo RD, Rwanda, Somalia, Sudan e Uganda. In Liberia si ritiene che tra il 1990 e il 1997 i bambini soldato, tra i sei e i 15 anni, siano stati 15.000 e abbiano costituito il 25% delle forze paramilitari; in Uganda circa 20.000 bambini sono stati rapiti e costretti a combattere dal movimento antigovernativo Lord Resistence Army dal 1993 a oggi; almeno 5.000, nel Congo RD, sono quelli che seguirono Laurence Désiré Kabila alla conquista di Kinshasa nel 1997 e che ora suo figlio Joseph promette di congedare.

Il rìupero dei bambini che scampano a questa esperienza è difficilissimo. Ovunque esistono centri di accoglienza fondati da organizzazioni umanitarie occidentali, talvolta appena tollerate e quasi sempre costrette a operare con i propri mezzi senza poter contare su aiuti governativi o privati locali. Tra i tanti problemi che devono affrontare, il primo è quello di porre per quanto possibile rimedio alle lesioni e alle menomazioni fisiche dei bambini ospitati. In sìondo luogo occorre contenere i danni psicologici prodotti dalla violenza che hanno subito e inflitto. Inoltre una condizione fondamentale per il loro rìupero, il ritorno in famiglia, può rivelarsi ardua o impossibile da realizzare. Posto che si riesca a ritrovarne i parenti, può darsi che la comunità nella quale questi abitano rifiuti di accoglierli perché essi hanno partìipato ad assalti al loro villaggio e possono essere persino i genitori stessi a respingerli: nel caso, ad esempio, delle bambine rapite da eserciti guerriglieri e usate come portatrici e prostitute, accade che le famiglie, consapevoli del fatto che nessuno pagherà più per loro il prezzo della sposa, preferiscano non riprenderle.