Area geografica
Chiave di ricerca
Home
Ambiente
Sviluppo
Popolazione
 
Chi siamo
Dossier
Documenti
Associazioni
Contatti
 
Iscriviti alla newsletter
 
Che tempo farà
 
› La donna nella cultura africana
 
Versione Stampabile
Alcuni dati e due istituzioni su cui riflettere
di Anna Bono - Reponsabile del Dipartimento Sviluppo e politiche femminili del Cespas, Centro Europeo di Studi su Popolazione, Ambiente e Sviluppo

Il tasso di mortalità materna, vale a dire il numero di donne che muoiono di parto ogni 100.000 nati vivi, è uno degli indicatori più eloquenti del divario esistente tra le condizioni di vita delle donne del terzo mondo, in particolare africane, e di quelle occidentali. Per queste ultime oscilla tra zero (Spagna, Lussemburgo) e dieci (Francia, Danimarca). Nel resto del mondo spesso è superiore a 100, anche di molto, e in Africa, dove si concentrano le situazioni peggiori, in media è maggiore di 550: addirittura 1.100 in Rwanda, Malawi, Mozambico e Repubblica Centroafricana, e 1.800 in Sierra Leone.

Le istituzioni tradizionali che ancora regolano la vita nei paesi del terzo mondo sono responsabili di simili tassi di mortalità materna tanto e forse più ancora dei fattori che creano situazioni straordinarie di crisi: guerra, carestia ed esodo forzato. Difatti paesi in pace da decenni presentano tassi di mortalità materna uguali o superiori a quelli dei paesi funestati da conflitti: in Kenya, ad esempio, in pace dall’indipendenza vale a dire dal 1963, il tasso di mortalità da parto è pari a 590, mentre nel vicino Uganda, che ha una lunga storia di conflitti tuttora in corso in alcune regioni, è "soltanto" di 510.

Per quanto riguarda l’Africa, tra le istituzioni responsabili non solo dei rischi che le donne corrono durante la gravidanza e il parto, ma anche delle infinite sofferenze e fatiche che ne affliggono l’esistenza, spiccano il prezzo della sposa e le mutilazioni genitali femminili.

Il prezzo della sposa costituisce il cardine dell’istituzione matrimoniale di centinaia di etnie africane. Dove è praticato, l’uomo che intende prendere moglie deve corrispondere ai parenti della futura sposa un certo ammontare di beni o denaro, tradizionalmente forniti dalla sua famiglia. Le trattative per stabilire entità e modalità di consegna del prezzo della sposa sono decisive ai fini della stipulazione del contratto nuziale: non c’è matrimonio se le famiglie dei due sposi non raggiungono un accordo, anche quando la scelta coniugale è concessa ai diretti interessati. Con la corresponsione dell’importo concordato la famiglia del marito acquisisce ogni diritto sulla donna per la quale ha pagato e sui figli che essa sarà in grado di generare. Finche tutto l’ammontare non è stato consegnato (cosa che può richiedere anni, quando di tratta di cifre o beni ingenti), i figli della coppia sono considerati membri della famiglia materna e il loro status è incerto; in caso di separazione, seguono la madre. Saldato i debito, appartengono per sempre alla famiglia paterna.

L’eventuale separazione dei coniugi comporta il dovere di restituire alla famiglia del marito i beni da questa corrisposti. Ma un buon padre di famiglia si suppone che usi il prezzo della sposa delle figlie per procurare mogli ai propri figli maschi. Di solito, quindi, una famiglia cerca al più presto un nuovo marito per la figlia separata affinché sia quest’ultimo a restituire il prezzo della sposa al marito precedente.

Alla morte di un uomo, invece, la famiglia del defunto conserva tutti i diritti acquisiti sulle sue mogli con il matrimonio, inclusa la proprietà dei figli che esse concepiranno nel resto della loro vita. Questi diritti diventano inalienabili e spesso le vedove sono obbligate a sposare un fratello o un cugino parallelo del defunto, avendo talvolta la facoltà di scegliere con chi unirsi.

Adattata ai nuovi contesti economici e sociali, questa istituzione continua a essere rispettata ed è ancora molto diffusa. Anche nelle situazioni più favorevoli, quando cioè la sposa è adulta e il matrimonio non è imposto, nega alla donna ogni libertà ed è esattamente questa è la sua funzione.

Con l’espressione "mutilazioni genitali femminili" si definiscono diversi tipi di interventi. Due sono quelli più comuni: l’escissione, che consiste nell’asportazione del clitoride e di altre parti dell’organo genitale femminile, e l’infibulazione, sempre associata all’escissione, con la quale si sigilla quasi del tutto l’apparato genitale mediante sutura. In alcuni casi gli interventi vengono eseguiti da personale medico e paramedico; ma la maggior parte delle donne non sono operate in strutture ospedaliere e gli interventi sono eseguiti senza anestesia, mediante strumenti non disinfettati e inadeguati – ad esempio coltelli, rasoi, aghi e spine – da persone, per lo più donne, che non hanno una preparazione specifica. In queste condizioni spesso le lesioni permanenti inflitte sono più gravi di quelle prescritte, si estendono ad altri organi e comportano complicazioni anche mortali: soprattutto infezioni ed emorragie. Abbastanza comuni sono anche i casi di slogamento e frattura degli arti, specie superiori, perché paura e dolore inducono le bambine a divincolarsi dalla stretta che le immobilizza. L’età alla quale le bambine sono sottoposte al tipo di mutilazione prevista dalla loro tradizione varia a seconda delle etnie, ma si concentra in un arco di tempo che va da pochi giorni dopo la nascita all’adolescenza.

L’indurimento delle parti lese, le cistiti, le infezioni ricorrenti dovute al ristagno dei liquidi organici che non riescono a defluire, oltre a comportare patologie permanenti, rendono il parto più travagliato e pericoloso per la madre e per il nascituro. Per le stesse ragioni spesso i rapporti sessuali risultano dolorosissimi. Inoltre al momento del matrimonio le donne che sono state infibulate devono essere in parte defibulate – in modo naturale, se il marito è in grado di farlo, oppure lacerando i tessuti con uno strumento tagliente – e dopo ogni parto subiscono un nuovo intervento di infibulazione.

Per capire meglio lo stato in cui versano le donne sottoposte a mutilazioni genitali occorre ricordare, infine, che quasi tutte abitano in paesi in cui i servizi sanitari pubblici sono estremamente carenti. La maggior parte di esse è povera, vive in condizioni igieniche critiche – abitazioni malsane, sovraffollate, prive di luce elettrica, acqua corrente, fognature – è denutrita o malnutrita e svolge attività gravose che, associate alle numerose gravidanze non assistite, ne minano la salute. Le mutilazioni sono un’ulteriore causa di sofferenza che contribuisce a deprimerle e a debilitarle.

Per giustificare l’esistenza delle mutilazioni genitali femminili, si accampano motivazioni di carattere igienico, estetico, religioso e sociale. Si sostiene, benché sia inverosimile, che favoriscono l’igiene personale; e che le parti intime femminili diventano più belle se rese lisce e uniformi asportando ciò che sporge. Vi è chi, semplicemente, afferma che sono tradizioni che, in quanto tali, vanno rispettate. Le popolazioni islamiche che le praticano sono convinte che sia la loro religione a prescriverle, ignorando che in realtà l’islam, pur avendo l’enorme responsabilità di assecondarle da secoli, e in certi casi di averle esportate (ad esempio, in estremo oriente), non ha inventato queste istituzioni e non le impone. Molti genitori, anche tra quelli riluttanti a farlo, sostengono con ragione che se le loro figlie non vengono operate non troveranno marito e che, custodendo così la verginità delle figlie, possono tenere alto l’onore della famiglia ed esigere un "prezzo della sposa" elevato.

Tutte le società che praticano mutilazioni genitali femminili sono caratterizzate da un forte potere maschile. Le mutilazioni che la donna subisce imprimono nel suo corpo il segno della sua sottomissione e della sua dipendenza. Al di là delle giustificazioni fornite, contribuiscono a far si che le comunità famigliari possano disporre delle facoltà riproduttive delle donne controllandone la vita sessuale: l’escissione riduce o annulla il piacere che la donna può trarre dai rapporti sessuali e l’infibulazione rende quasi impossibile che abbia rapporti con uomini, al di fuori del matrimonio e all’insaputa dei familiari.

Nel solo continente africano vivono più di 100 milioni di donne che hanno subito mutilazioni genitali e si calcola che ogni anno 2 milioni di bambine vi vengono sottoposte. L’infibulazione è praticata soltanto in Africa e presso alcune popolazioni dell’estremo oriente. L’escissione è presente anche in Australia e nell’America latina. L’istituzione è diffusa soprattutto nella fascia subsahariana dell’Africa, dalle coste dell’oceano Atlantico a quelle dell’oceano Indiano; si pratica inoltre nella penisola Arabica e nel golfo Persico, dove si riscontra nello Yemen meridionale, in Oman, nel Bahrein e negli Emirati Arabi. La situazione più critica è quella della Somalia, dove circa l’80% delle donne sono infibulate e pressoché tutte sono escisse.